Il periodo dell’adolescenza è particolarmente fecondo rispetto al cambiamento ed è contemporaneamente un momento critico rispetto alla direzione che prenderà il processo di costruzione della personalità. Come se entrare in crisi profonda ponesse l’adolescente di fronte al bivio tra la possibilità di sviluppare una struttura personale solida da un lato e il rischio di un estendersi e di un amplificarsi dei punti di fragilità da un altro lato. Tutto dipende da come il ragazzo si pone di fronte al suo stato di crisi.
D’altro canto pensare di farsi aiutare da qualcuno in adolescenza è sovente particolarmente costoso a livello emotivo. Tutti tesi verso l’acquisizione e il riconoscimento da parte degli altri della propria indipendenza, nella necessità di prendere temporaneamente le distanze in qualche modo dai propri genitori per potersi differenziare da loro, ecco nei ragazzi, l’ambivalenza nel chiedere aiuto e nel lasciar intendere o nel mostrare il proprio stato di bisogno.
E’ chiaro, dunque, che la relazione d’aiuto, in adolescenza, segue un suo andamento peculiare.
L’adolescente, infatti, non è più il bambino spontaneo e non è neppure l’adulto, che, in un modo o nell’altro, ha una domanda, cui attende risposta. L’adolescente è in mezzo e molto spesso non sa neppure lui di che cosa ha bisogno.
Così l’adolescente, in generale, ed ogni adolescente, in particolare, fa un uso personale della relazione con lo psicologo: qualcuno ne usa il valore di spazio neutrale, qualcuno quello di tempo, qualcun altro quello di ascolto o di scambio.
E spesso gli adolescenti lo fanno senza dirlo ed è magari a posteriori, o indirettamente, che lo psicologo ne viene a conoscenza.